Bisogna tornare indietro nel tempo, in Sardegna, per trovare un processo di questo tipo. Siamo negli anni Sessanta a Oristano, e centinaia di pescatori di Cabras vengono indagati per rapina e altri reati gravi. Si trattava di una forzatura portata avanti da quegli stessi magistrati che ricevevano in regalo quintali di muggini e vivevano in affitto nelle fastose residenze dei padroni dello stagno, le presunte vittime della presunta rapina che era, in realtà, al massimo una pesca di frodo.
Un processo farsa, che non partirà mai, perché all’epoca a Oristano non c’era nemmeno un teatro dove poter ospitare i circa 300 pescatori indagati. Un processo interamente politico, smontato da un collegio di legali di cui fecero parte nomi del calibro di Umberto Terracina. E i parallelismi sono tanti, con quanto è successo ieri a Cagliari.
Obiettivo di quel processo era criminalizzare e soffocare il nascente movimento dei pescatori liberi, che dopo 30 anni di lotte, scioperi, arresti e persino morti, riuscirà nell’intento di sottrarre lo stagno di Cabras ai suoi padroni feudali e trasformarlo in un bene pubblico. Obiettivo del procedimento legato all’operazione Lince è quello di criminalizzare il movimento sardo contro l’occupazione militare che, tra alti e bassi certamente, gode da decenni di un consenso significativo in seno al popolo sardo.
Oggi come allora le accuse sono slegate dalla realtà e mescolate insieme in un minestrone difficile da digerire anche per gli stomaci più pelosi. «Questi vogliono fare la rivoluzione!» ha detto più o meno l’accusa nella sua requisitoria, durante la quale ha chiesto il rinvio a giudizio di tutte e tutti gli indagati. È un peccato che il processo non sia stato trasmesso in diretta da qualche parte: chi lo avesse seguito si sarebbe reso conto dei suoi caratteri assurdi.
Allora ci furono verbali falsi e un sistema di connivenze all’interno della Oristano bene che vedeva dalla stessa parte della barricata magistrati, carabinieri e padroni dello stagno. Anche oggi l’accusa e le presunte parti lese fanno parte della stessa consorteria: lo Stato. Quello Stato che è il responsabile dell’occupazione militare della Sardegna, quella stessa Procura che chiede l’archiviazione per i cinque generali indagati per il disastro ambientale del poligono di Teulada e della sua penisola Delta.
Ieri il processo vedeva sul banco degli imputati la possibilità di svolgere una legittima attività politica di opposizione all’occupazione militare della nostra terra. Gli imputati e le imputate non sono solo 45, ma sono migliaia se non di più. Alla sbarra c’erano i diecimila di Capo Frasca de 2014, le migliaia scese in piazza negli anni successivi, tutte e tutti quelli che manifesteranno da ora in avanti.
A chiedere la condanna di un intero movimento ci si è messo il vertice stesso dello Stato, con la Presidenza del Consiglio dei Ministri che si è costituita parte civile ed è pronta a chiedere un cospicuo risarcimento alle 45 indagate e indagati. La goccia di veleno ben custodita nella coda di questo governo Conte bis, che non si differenzia in nulla dai suoi predecessori per quel che riguarda l’occupazione militare della Sardegna come non saranno diversi i suoi successori.
L’udienza è stata aggiornata al 15 aprile, quando ascolteremo le parole della difesa contro la richiesta di rinvio a giudizio. Ma la battaglia non la si vincerà solo dentro l’aula della Corte d’Assise di Cagliari. È un processo politico, e politica dovrà essere la risposta.
Ci vedremo sicuramente il 15 aprile per una nuova manifestazione, contro la repressione e contro l’occupazione militare della Sardegna.